No. Al di là delle motivazioni che verranno rese note a breve, Internet è sostanzialmente inarrestabile; con un esempio un po' azzardato direi che è come voler imbrigliare l'universo: esso ha delle sue leggi, le sue dinamiche, alcune delle quali ancora incomprensibili. Esiste solo un modo per fermare la rete, posto che sia possibile: una sorta di grande "switch off", in altre parole un divieto di accesso o se vogliamo una totale censura.
Da quello che trapela, pare che la sentenza in questione si rifaccia alla lesione del diritto di privacy, ovvero il provider, Google nella fattispecie, avrebbe deliberatamente ignorato la restrittiva legislazione italica sul tema, a fronte di un consistente accesso degli utenti alla pagina incriminata: sostanzialmente poiché avrebbe avuto un ritorno pubblicitario, quindi economico, avrebbe fatto finta di non vedere.
Il problema però rimane, ovvero la pachidermica legislazione italiana non è al passo con i tempi, né lo può essere, e questo per vari motivi.
Innanzitutto perché il sistema legislativo nostrano è talmente lento che spesso i casi si risolvono in qualche modo, possiamo dire "all'italiana", ancora prima che la legge venga di fatto varata e, a tal proposito, sono vent'anni che si parla di riforme istituzionali che mirerebbero allo snellimento dell'apparato, mentre di fatto, si legifera al contrario aumentando a dismisura il numero degli enti (Devolution, nuove Province ecc).
In secondo luogo, la qualità infima della maggior parte dei politici italiani, spesso vere e proprie comparse se non addirittura elementi di disturbo causa manifesta incapacità intellettiva. Non da ultimo l'età media della classe politica che inibisce, evidentemente, la comprensione delle mutevoli dinamiche del mondo moderno, nello specifico di Internet.
In terzo luogo la situazione anomala del governo del Bel Paese, retta da una sorta di Telecrazia e da un leader costretto, a ragione o a torto (ai posteri l'ardua sentenza) a ragionare non tanto per il bene della nazione, ma a continue emergenze che lo riguardano personalmente, nello specifico, gli viene imputato un certo conflitto d'interesse avendo tra le svariate attività cui si dedica, anche quelle di editore.
Ma al di là di tutto, rimane una grosso mancanza, nella sentenza di colpevolezza emanata dai giudici milanesi: il concetto che traspare infatti è che si stia in qualche modo addossando una responsabilità penale ad un soggetto che non può controllare la condotta altrui, per ovvi motivi, ovvero la vastità della rete che è il caso di dirlo, è virtualmente infinita, e la quantità dei contenuti inter scambiati, anch'essa di difficile determinazione per via dell'immenso numero.
Sarebbe, paradossalmente, come richiedere l'arresto del ministro dell'Interno perché non riesce ad eliminare la delinquenza!
Come dunque far collimare il diritto alla privacy con la libertà anarchica di Internet?
Sfruttando le caratteristiche di questa, ovvero l'enorme numero di persone che vi accedono con una campagna di sensibilizzazione evidenziando, ad esempio, all'interno della pagina un pulsante da cliccare in caso di contenuti offensivi e, magari, mettendo ben in chiaro la responsabilità penale di coloro che compiono l'atto al momento dell'upload.
Anche tali sistemi posseggono delle pecche, ovviamente; si potrebbe, infatti, deliberatamente far oscurare un sito il cui proprietario ci risulta antipatico, o peggio concorrente, ma questo avviene purtroppo già oggi.
Ciò che è invece evidente a tutti, tranne forse ai canuti gerarchi, è che la censura non può essere una risposta.
Nella libertà c'è il nostro futuro, quello che evidentemente loro non riescono nemmeno ad immaginare.