Ma dopo un po' di tempo la sua sicurezza
comincia a dare segni di incertezza
si sente crescere dentro l'amarezza
perché adesso che il suo scopo é stato realizzato
si sente ancora vuoto
si accorge che in lui niente é cambiato
che le sue paure non se ne sono andate
anzi che semmai sono aumentate
dalla solitudine amplificate
e adesso passa la vita a cercare
ancora di comunicare
con qualcuno
che lo possa far tornare
(Extraterrestre - E. Finardi)
Anno 2148, uno a caso: per cominciare un racconto di fantasia l'anno giusto non è fondamentale, ma siccome il racconto è di fantascienza non si può certo iniziare con il classico "c'era una volta".
Anno 2148, dicevo, sui cieli del Bel Paese il sole improvvisamente si oscurò.
Non era una nube temporalesca, sebbene fosse grande tanto quanto, così enorme che si stentava a credere che potesse rimanere lì, sospesa a mezz'aria. Era un astronave, naturalmente, materializzatasi all'improvviso: un attimo prima Roma era baciata dal tiepido sole primaverile e un'attimo dopo tutto era in ombra. All'inizio ogni tipo di contatto con le entità aliene parve non avere alcun successo. L'esercito era in allerta, ovviamente, ma nessuno si fidava a lanciare l'ordine per un attacco: non si conoscevano le intenzioni degli alieni e poi, era ovvio supporre che la tecnologia di questa razza extraterrestre non poteva che essere superiore. Attaccare sarebbe certamente equivalso ad un suicidio. Passarono alcuni giorni, si scoprirà poi che servirono agli alieni per mettere a punto una sorta di decodificatore, un sistema cioè in grado di decriptare il nostro linguaggio, parole, grammatica, ecc e permettere così una traduzione simultanea. O, per lo meno così ci dissero gli alieni, i quali, per nostra fortuna erano giunti dal profondo spazio con intenzioni pacifiche e che, sempre per nostra fortuna, erano straordinariamente simili a noi. Di più erano identici, Sapiens Sapiens, e rivelarono ad alcuni che la nostra presenza sul Pianeta Terra altro non è che una sperimentazione da loro operata milioni di anni fa. Non erano disposti a spiegare molto, in realtà, la diffidenza nostra era tanta, forse anche a causa del timore, ma di contro si rivelarono molto curiosi. Vollero sapere di tutto, conoscere quanto tempo ci abbiamo messo a scoprire la scrittura, ad elaborare concetti matematici, filosofici. Stranamente, a differenza nostra essi non erano a parte del concetto di religione. Provammo a spiegarglielo.
Un entità superiore - dissero alcuni - aveva creato il mondo, poi gli animali e poi l'uomo. Dall'uomo era poi nata la donna, poi il fattaccio della mela e il peccato originale derivatone. I Sapiens alieni parvero un po' perduti, incapaci di far conciliare queste cose con le nostre conoscenze scientifiche e la tecnologia da esse derivate. Faticarono assai a comprendere come potesse esistere un serpente parlante, fosse anche un simbolo sotto cui si celerebbe il Male, il quale però amava dire parecchie verità o se non altro si adoperava per svelare le menzogne del creatore e, come quest'ultimo, un padre di infinita bontà potesse essere allo stesso tempo magnanimo, razzista, buono, sanguinario e sadico. Quando gli parlammo di aldilà, della vita dopo la morte, rimasero affascinati dall'idea di un Paradiso e ci chiesero prove e notizie sulla sua natura . Qualcuno lo spiegò come un luogo di piacere con vergini da possedere disponibili per ogni uomo morto martire, altri come un luogo di eterna estasi da raggiungersi attraverso una vita di privazioni. Ovviamente erano confusi, gli alieni, anche perché di prove non ne videro nemmeno l'ombra. Inoltre, qualcuno asseriva che i primi sbagliavano, che il paradiso e il resto era tutto falso, che il tutto era dolore e bisognava trascendere reincarnandosi per espiare fino ad annullarsi, qualcuno addirittura con un becero senso dell'umorismo, parlava di asini volanti ed elefanti rosa subacquei. Qualcuno agghindato d'oro e pietre preziose spiegava come la povertà e l'umiltà fossero la via insegnata dal loro maestro per la salvezza, qualcuno altro parlava di pace santa, da imporre finanche con la guerra. Insomma per noi terrestri che plasmammo l'immagine di dio nei millenni credendola immutabile o illusi che lo fosse, parve che essi, pur tecnologicamente avanzati fossero sin troppo duri a capire le verità rivelate. Evidentemente avevano ragione quei pochi che rimarcavano le mille contraddizioni della e delle religioni, dando giustificazioni ai Sapiens alieni. I quali, dal canto loro, annotarono tutto e ci svelarono infine, prima di partire per sempre, di come pur eguali a loro, fossimo, di fatto, diversamente intelligenti. Passammo molto tempo a chiederci, (prima che, come tante cose delle umane genti, anche questa cadesse nell'oblio), quale fosse il senso di quel "diversamente intelligenti". Ci furono discussioni animate sui blog, su twitter, sui salotti olografici, nelle chat. Cosa voleva dire essere diversi? Forse che eravamo inferiori? Che fossimo degli stupidi? Non si giunse mai, invero, ad una risposta definitiva. Se torneranno, un giorno, potranno forse spiegarci e dunque svelarci quell'ardua sentenza.
Storiella piuttosto stramba direte voi, ma al sottoscritto quest'idea, magari espressa in modo un po' meno fiabesco, ha fatto molto pensare. Essere "diversi" può essere menomante? La risposta più intelligente a mio avviso è : dipende. Dipende dalla natura della diversità, se essa, riferita a noi stessi, ci rende meno competitivi in senso assoluto la risposta è sì, viceversa il pensarlo è semplicemente una forma di razzismo, ovvero un aberrazione mentale che si certifica nel sostegno di menzogne.
Alcuni infatti confondono diversità, ovvero l'unicità dell'individuo, una sua caratteristica peculiare, con "anormalità" ovvero allontanamento da ciò che la norma, per definizione indica come congruo, ordinario, usuale. L'handicappato, o diversamente abile, è dunque anormale e quindi diverso. Un uomo cammina, se non deambula ma è costretto in una sedia a rotelle è diverso, dunque anormale. L'errore è evidente: l'uomo in carrozzina vive una situazione di anormalità, ma non è anormale. Anche il diabetico il cui metabolismo funziona male, non è un essere anormale, o diverso. Non si dovrebbe confondere il sostantivo che definisce uno stato della persona con la persona stessa. Ma se tale stato riguarda l'intelletto, ovvero ciò che definisce davvero l'essere di una persona la cosa vale ancora?
Qui le mie certezze vacillano: lo stato permanente di idiozia è paragonabile ad uno stato permanente di menomazione fisica. In fondo, quest'ultima può influenzare la persona più o meno come tanti altri fattori esterni, in altre parole, la stessa menomazione fisica ha su persone diverse, con caratteri diversi, conseguenze diverse, c'è chi cade in perenne depressione e chi lotta e diviene a suo modo un esempio di vita e forse addirittura un uomo migliore (mi viene in mente Zanardi, l'ex pilota di F1). L'idiozia, la stupidità, invece in sé sono menomazioni che di fatto rendono l'uomo diverso, perché ragiona, se ragiona, per canoni diversi quasi sempre non funzionali.
Ora quando leggo frasi come:
L'omosessuale nato lo è per un disturbo di personalità legato, probabilmente, ad una errata assimilazione dei ruoli dei genitori, o anche a cause organiche che sarebbe complicatissimo spiegare. Tuttavia, è nella stessa situazione, dal punto di vista concettuale, di chi è handicappato, sordo o cieco. Per queste categorie, con una certa ipocrisia si dice diversamente abili, non vedenti e simili. Il gay è diversamente orientato per la sessualità e quel diversamente la dice lunga sulla normalità
Ecco, quando leggo frasi come queste mi viene spontaneo chiedermi chi sia realmente il diverso, anzi chi sia realmente l'anormale, se il gay, il cieco, il sordo, l'handicappato o se invece non lo sia l'essere che esprime una tale sentenza. Mi chiedo se anche io in fondo non sia razzista nei confronti degli idioti, se paradossalmente, essere razzista coi razzisti sia una forma di razzismo.
Rubando il pensiero alla persona che ha pronunciato le suddette parole e sostituendo la parola "omosessualita" con la parola "idiozia" non posso non chiedermi se
Rubando il pensiero alla persona che ha pronunciato le suddette parole e sostituendo la parola "omosessualita" con la parola "idiozia" non posso non chiedermi se
Una eccessiva tolleranza verso stati di anormalità, e l'omosessualitàidiozia tale va considerata, ci porta alla conclusione che la gente si confonda e non capisca più cosa è il bene e che cosa è il male.
In realtà me lo chiederei davvero, ossia, porrei tale frase come interrogazione, a differenza di chi l'ha pronunciata come frutto di un ragionamento. La tentazione di rispondere positivamente è assai alta, d'altronde costui travisa la realtà al punto che ogni suo ragionamento cade in contraddizione logica dopo poche parole. Esempi?
L'omosessuale, al quale va dato ogni rispetto, è clinicamente un malato, ovvero soffre di un disturbo patologico che lo altera. Inutile che questi signori vogliano convincerci che i normali siano loro.
Riassumendo, un atteggiamento sessuale differente indicherebbe dunque un'anormalità verso la quale non bisognerebbe essere troppo tolleranti anzi che sarebbe meritevole estirpare al fine di rimarcare in modo definitivo ciò che è bene da ciò che è male (ossia l'anormalità) il tutto mantenendo ogni dovuto rispetto. Encomiabile minestrone di stronzate (perdonate la franchezza) condito dalla menzogna che l'omosessuale pretenda di rappresentare la normalità (anziché una normalità), a scapito degli eterosessuali.
Oppure:
Io ho sempre detto che ho il massimo e assoluto rispetto per chi compie scelte di altro tipo rispetto al mio e naturalmente questo non implica nessuna malattia, ma secondo me è una condizione di diversità. (...)Lungi da me giudizi discriminatori o l'omofobia, ma contesto al mondo gay il tentativo di impedirmi di dire quello che penso.
Ovvero un minestrone di menzogne condito con un vittimismo tipico di certi ambienti religiosi oltranzisti.
Da eterosessuale, non posso che sperare che egli possa sempre dire ciò che pensa, nella mia piena convinzione che anormale o meno, ognuno in fondo ha il diritto di essere idiota.
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