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giovedì 8 marzo 2012

Siamo capitale umano


Mercato del lavoro. Non so a voi ma al sottoscritto è una frase che da i brividi.
Non si parla di vite, uomini, donne, ma di "occupati". Siamo parte di "strutture produttive", siamo "capitale" umano.
Sostituire la paola "schiavi" alla parola "lavoro" e parlare, dunque, di mercato degli schiavi non pare più un'assurdità.
Beninteso, non possiamo certo paragonare la vita di un "occupato" di oggi con quello di uno schiavo del passato. Bisogna, è ovvio, rivedere il concetto di "schiavismo" e attualizzarlo. 
Semplicemente si potrebbe, o forse dovrebbe, parlare di "neo schiavismo".
Proviamo a ragionare: il nostro è un Paese che invecchia, le generazioni invecchiano e le nuove sono troppo poco numerose. Le motivazioni possono essere molteplici, ma sostanzialmente si possono ricondurre quasi tutte a motivazioni economiche. C'è chi rinuncia ai figli per la carriera, chi rinuncia perché non può permetterselo, chi perché ne vorrebbe tanto un altro ma con i costi di oggi non potrebbe garantire ad entrambe buone possibilità di emergere (istruzione ad esempio), o chi, ancora, teme di vedere la propria vita sconvolta da sacrifici che i figli richiedono. C'è chi ha paura di perdere il posto di lavoro se rimane incinta, chi vive quotidianamente una situazione di precariato che non gli permette di vedere un futuro, tanto meno quello rappresentato dai figli.
C'è chi rinuncia ai figli per mero egoismo, chi per rinuncia dopo aver soppesato la propria situazione. 
Quale che sia il motivo, a parte coloro che vorrebbero ma non possono per questioni legali o fisiologiche, l'Italia invecchia.
Ora, il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ci rende noto che :
che si lavori di più, in più e più a lungo...non si tratta di uno slogan ma di un percorso inevitabile da affrontare con determinazione, anche se con gradualità
Il discorso è semplice e lineare: non potendo contare sulle nuove generazioni, quelle già produttive devono produrre di più e per più tempo.
E' davvero questa la soluzione? Più lavoro per più tempo?
Personalmente ritengo tale soluzione una cura dei sintomi piuttosto che della malattia.
Anzi un tentativo di cura.
Il perché di questa mia opinione cercherò di spiegarlo.
Innanzitutto vedo un problema di fondo: attualmente il lavoro sembra essere diventato più un privilegio che un qualche cosa parte integrata della nostra vita. Milioni di giovani sono senza lavoro, una discreta percentuale di quelli che ce l'hanno sono sfruttati, sottopagati persino per i già miseri standard italiani. Bisogna ringraziare, se si ha un lavoro.
Questo però significa che le nuove generazioni non solo non saranno in grado di garantirsi un futuro a termine della loro "vita lavorativa", ma che non saranno nemmeno in grado di rimpinguare le casse dell'Istituto previdenziale per far fronte alla pensione di coloro che sono prossimi al raggiungimento della fatidica (e quanto mai incerta) età pensionabile; lavoratori che per inteso, oggi, pagano con i loro contributi i vitalizi degli attuali pensionati..
Il Governo avverte profetico che i giovani devono abituarsi a cambiare spesso lavoro e residenza, prospetta cioè come normalità futura, una vita precaria priva di certezze. Di fatto, si immagina, per il futuro dei giovani, una sorta di nomadismo; in pratica, l'ennesima  disincentivazione a generare figli.
Tutto questo mentre la generazione attuale invecchia e con essa la capacità produttiva, la freschezza delle idee, l'incoscienza del rischio. Invecchia già sapendo che nel momento del bisogno non vi saranno figli a supportare la lunga vecchiaia regalataci dalla scienza medica e dal benessere.
Invecchia senza neppure la certezza che a 69-70 anni sarà ancora in grado di reggere attività che non siano quelle autoreferenziali delle caste che ci stanno trascinando nel baratro e con l'ipotesi che le condizioni socio economiche imporranno scontri generazionali come mai prima d'ora.
Come potrà, un domani questa generazione, invecchiata e impoverita e quella futura senza arte né parte, senza più valori come quelli costituenti di Patria che avrà dovuto abbandonare e di Famiglia che non l'ha supportati, a risollevare un'economia che le vede come mero "capitale", "forza lavoro", in sostanza  nient'altro che numeri e fattori?
Questa spirale degenerativa non può essere risolta con più lavoro per più tempo, perché il "più tempo" va a scapito del "più lavoro" e il mantenimento del posto di lavoro blocca il ricambio generazionale, impedendo  di fatto il normale progredire della società.
La realtà è che l'unico modo per cui si può curare la malattia è individuarne le cause, le quali a mio avviso sono tutte racchiuse nella finanziarizzazione dell'economia, processo volto all'esclusivo aumento di capitali senza tenere conto che i fattori di benessere di una nazione non sono racchiuse nelle inutili cifre del PIL, ma nella capacità dei popoli, degli interi popoli, di fruire della ricchezza prodotta.


In pratica bisognerebbe risolvere le inconcepibili e inspiegabili distanze tra le classi manageriali, sempre più ricche e fuori dalla realtà e quella parte maggioritaria di umanità che si adopera per seguire le linee guida dettate dai manager stessi (siano essi politici o imprenditori), ma che si ritrova con salari e stipendi con sempre meno potere di acquisto e in balia di folli imprenditori che dall'oggi al domani mettono in ginocchio economie consolidate per andare a sfruttare popoli con diritti quasi nulli e già sufficientemente schiavizzati.
Aumentare i compensi riducendo l'enorme peso fiscale che grava su di essi, mandare a quel paese il libero mercato introducendo pesanti dazi (moral duties)  laddove questo significhi produrre ricchezza fuori dalla nazione e arricchirsi (ma per quanto ancora?) rivendendo i prodotti in patria, potrebbero essere altre proposte.
Proposte stupide forse, utopiche, non funzionali, irrealizzabili come la via proposta da Visco, non risolutiva.
Ma se qualcosa deve essere fatto va fatto presto, altrimenti, è la storia che lo insegna, quando i popoli sono affamati scoppiano le rivolte.
E anche il concetto di "affamato", andrebbe contestualizzato e ricondotto ai nostri tempi.

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