S’udivano solo il ritmico picchiettare del tappino di una Bic su quel tavolo di fortuna e il beep irregolare del macchinario che monitorava il cuore del piccolo paziente in fondo alla corsia.
L'infermiere di turno osservava la cupa notte dalla finestra senza vetro.
Una notte come tante altre, nel fine inverno dell'ospedale da campo di Jalaalaqsi, Somalia, Africa.
Finis Terrae.
Un inverno di certo strano per un ragazzo di poche primavere, con un camice bianco scelto dieci chili addietro, una croce rossa al braccio e una Beretta calibro nove corto alla cintura.
Infermiere soldato.
L’odore acre del sudore permeava l’aria malsana di quella stanza, ricavata da quel che rimaneva di un edificio in muratura degli anni ottanta, costruito con gli aiuti umanitari e poi abbandonato alla folle violenza della guerra civile e al deserto.
Una guardia sonnecchiava sopra il tetto protetto da una barriera di sacchi di sabbia e con lui, il resto dell’ospedale militare, compreso il portaferiti che avrebbe, per lo meno, dovuto tenergli compagnia.
Improvvisamente la sua attenzione fu attirata dal fastidioso suono in fondo alla stanza.
Le pulsazioni del piccolo paziente affetto da malaria stavano rallentando in modo preoccupante.
“Una al secondo” disse, rendendo udibili i suoi pensieri
“Troppo pochi” pensò tra se.
Si alzò dalla sedia cercando di non fare rumore, ma le articolazioni, anchilosate dalla prolungata immobilità di quella notte, tradirono i suoi movimenti e la sedia gracchiò sul pavimento.
Attraversò la corsia con lentezza, osservando i giovani corpi distesi sulle brande e poi si accostò a quella dove giaceva l’infante.
“E’ troppo grande questo letto per un neonato” pensò.
Poi scosse la testa per scacciare quel pensiero.
Sorrise, amaramente, ricordando a se stesso che, di tutte le cose assurde di quel posto, un letto troppo grande era di certo la cosa più banale.
Il suo sguardo si posò sul piccolo paziente, quindi sul macchinario.“centodiciotto pulsazioni, mi ero sbagliato” si disse poco convinto, poggiando la mano sulla fronte del piccolo.
Era fredda.
Stette alcuni istanti dinnanzi al corpicino, quindi si voltò per tornare al tavolo. Un ultima occhiata prima di voltarsi però svelò che forse prima non si era del tutto sbagliato:
“Cinquantatre” disse sorpreso a voce alta “ Cazzo, è in aritmia.”
“Carlo, corri a chiamare…” si interruppe non vedendo più il portaferiti.
“Ma dove diavolo…” si girò ancora verso il piccolo paziente.
“Trentotto…se ne sta andando” osservò allarmato.
Per un attimo rimase impietrito.
Fu un attimo intensissimo quanto infinitesimale. Poi si riprese.
Corse a prendere l’ambu, aprì il baule, spostò nervosamente le varie cassette fino a trovarlo.
Prese in mano lo strumento, ma lo gettò un istante dopo, stizzito, verso la porta.
Era troppo grande per un bambino.
Voleva bestemmiare, ma guardando verso l’uscita vide entrare il portaferiti decise di usare il fiato per urlargli con tono imperativo.
“Corri a chiamare il Capitano. Ci stiamo giocando il 18”.
Il 18.
Gli veniva il vomito.
Carlo, il portaferiti da poco rientrato, posò il pallone ambu che aveva preso al volo sul tavolo, quindi uscì di nuovo stropicciandosi gli occhi.
“Corri cazzo, ti ho detto che sta morendo” inveì l'infermiere contro la lentezza del commilitone.
Poi corse anche lui verso il neonato.
“Venticinque…dai piccolino, non mollare adesso”.
“Cosa c’è ragazzo, cosa succede?”.
L’infermiere alzo il volto discostando le labbra da quelle del piccolo e guardò l'anziana donna sopraggiunta nel frattempo.
“Angela…aiutami”
Angela. Non poteva essere che lei.
C’era sempre, con quel suo sorriso dipinto negli occhi. Sempre.
Se qualcuno aveva bisogno di un sorriso, di una pacca sulle spalle o persino di una di quelle buonissime banane per non svenire sotto il peso di turni troppo lunghi e del caldo infernale del deserto, lei era lì, pronta, con quello che occorreva.
C’era qualcosa di sovrannaturale nel suo arrivare sempre al momento giusto.
Angela... come se fosse...
Tornò a insufflare aria nei piccoli polmoni provati dalle febbri malariche.
"Che idee cretine - pensò - non credo in dio e penso agli angeli"
“ Stai premendo nel posto sbagliato” disse lei con voce gentile.
“Dove?” domandò imbarazzato e agitato.
“Qui” indicò lei con la mano tremante.
“…due …tre”
“ Venti…non va bene….”. L’ago segnava un tracciato impazzito.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
“Luca …dobbiamo fare un’intracardiaca”
L’infermiere si voltò con gli occhi spalancati
“Angela …io”
“Luca non c’è tempo di andare a svegliare un dottore...è in arresto cardiaco”
Ma nella testa le parole suonarono come "non c'è tempo di vergognarsi o di avere paura", e rimasero sospese in un dubbioso:
“Ma…”
“Quarantasette...” Fece notare la donna, che già si era allontanata verso la borsa termica.
Pochi istanti dopo ritornò con in mano la siringa.
La mano tremava. Non lo sguardo.
“Sai che devi farla tu, ragazzo, vero?” Sorrise.
Era incredibile la serenità che fuoriesciva da quel sorriso, da quell’incresparsi del volto in mille rughe.
Da quegli occhi colore del cielo di novembre…
Il giovane infermiere annuì, allungò la mano e prese la siringa
“Qui...fino in fondo”, indicò la donna, dopo aver fatto scorrere la vecchia mano sulle costole.
L’infermiere trasse un sospiro, poi spinse l’ago nel costato del neonato. Durò un attimo. Un attimo in cui era condensata un'intera esistenza; un attimo come quello in cui una freccia penetra mortifera tra le costole, come il dolore che traspare dal sussulto di un corpo svuotato, come il primo vento di primavera, come uno sparo, come il pensiero sospeso di una parola non detta, come l'orgasmo primigenio da cui tutto nacque, come l'ultimo sospiro. Un attimo perchè penetrasse l'ago ed uno per ritrarlo, poco dopo, a siringa svuotata.
Trentacinque.
Quarantotto.
Settantotto.
Centodieci.
“Si !!!…è fatta”.
Silenzio.
“Ti sarai preso il mughetto ragazzo. Come ti è venuto in mente di fare la respirazione a bocca a bocca?” chiese dopo alcuni minuti l’anziana donna.
“Non importa, Angela...l’importante …”
“L’importante...importante cosa?” lo interruppe lei.
“Che lo hai salvato?” aggiunse con una calma che tradiva irritazione. “ Non lo puoi salvare ragazzo, non capisci?”
“Ma il cuore ora…”
“Ora cosa?...Senti” pronunciò secca indicando il neonato "Chi ha bisogno di essere salvato?" aggiunse.
Sessantaquattro.
Il ragazzo si precipitò, incurante e furioso sul neonato.
Cinquantadue.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Ventuno.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Uno…due…tre…soffio.
Sette.
Beeeeeeeeeeeeeeeeeeep.
Uno...due...
"Basta" ordinò perentorio il Capitano medico.
"Sapevamo che non avrebbe passato la notte" aggiunse con tono più pacato.
Il ragazzo guardò la donna dietro l'ufficiale. La vecchia annuì impassibile.
"Ma allora...perchè?" voleva gridare ma la voce gli morì in gola.
Il Capitano uscì dalla stanza scuotendo la testa, seguito dal suono di passi strascicati che si persero ben presto nella calda notte africana.
Restò solo, con il cuore che batteva all'impazzata, vivo, in mezzo a corpi moribondi e nel silenzio della sua angoscia. Solo in quel beep prolungato e, senza un perché, vivo, dinnanzi allo specchio degli occhi di novembre di lei.
APPUNTI DI VIAGGIO
Il racconto è la versione romanzata di una storia realmente accaduta e vissuta in prima persona. Romanzata perché i nomi delle persone sono in parte inventati e soprattutto perché i ricordi ricostruiscono scene realistiche ma soggettive. Il titolo, enigmatico, non trova risoluzione nel racconto, perché da quella particolare angolazione, non esiste un senso né alla vita, né alla morte che non siano la vita e la morte stessa.
Mi sarebbe piaciuto farne qualcosa di più lungo, ma evidentemente, benché spesso prolisso, il mio stile e le mie capacità mi negano questa possibilità.
Mi perdonino i medici di professione se dovessero trovare incongruenze nel racconto: ad esempio, i battiti cardiaci riportati, sono frutto di ricordi stinti e potrebbero non essere veritieri né verosimili.
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